Scaleup. Sono da un paio d’anni l’oggetto di
discussione
di una élite a livello internazionale che le identifica come la
condizione affinché tutta l’energia innovativa e creativa che i vari
ecosistemi di startup stanno generando non vada dispersa.
Sherry Coutu lo scorso maggio a
Brussels lo
ha ribadito senza mezze misure: “E’ definitivamente tempo, anche in
Europa, di spostare l’attenzione dalle startup alle scalups”.
Ma, per fare questo, serve un terreno comune, ossia fare chiareza su
quando una startup possa considerarsi cresciuta, ossia possa definirsi
una “scaleup”.
In un articolo che ho pubblicato ieri sul sito di
Startup Europe Partnership
(iniziativa della Commissione Europea che ha come fine proprio quello
di sostenere la crescita delle migliori startup europee) ho provato a
fornire alcune indicazioni. Di seguito riassumo i punti principali.
Se si assume – adottando lo stesso approccio che
Steve Blank
usa nel definire le startup – che le fasi di vita di una impresa siano,
in gran parte, determinate dalla principale sfida che hanno di fronte,
possiamo definire una
scaleup come un “
un’impresa operante in ambiti innovativi che vive una fase di crescita e di espansione e il cui sviluppo passa attraverso
accordi strategici con grandi imprese“. Quindi i punti chiave che caratterizzano una scaleup (a differenza di una startup) sono
crescita dimensionale e
validazione di mercato.
Gli
indicatori di riferimento per valutare una scaleup sono “
copertura del mercato, fatturato, valore aggiunto e/o numero di dipendenti“.
Fattori – va detto – non sempre di facile identificazione/reperimento
se si ha a che fare con società non quotate, tanto che spesso si fa
riferimento a proxy quali l’ammontare dei capitali raccolti.

Tale definizione è – come accennato- in linea con quella di “startup” proposta da
Steve Blank, che appunto identifica le startup come “progetti imprenditoriali in cerca di un business model scalabile”. Quindi la
differenza tra startup e scaleup sta nel
passaggio dalla ricerca di un business model (search phase) alla realizzazione del business model (execution phase).
L’idea che le scaleup rappresentino il passo successivo nel processo di evoluzione delle startup è confermata dal
World Economic Forum che, in un recente report, ha identificato tre fasi: 1) stand-up 2) start-up e, appunto, 3) scale-up.
Va segnalato come l’esistenza delle scaleup discenda strettamente
dalla presenza di un solido ecosistema imprenditoriale. Come ben segnala
Brad Feld:
“You have to have a vibrant ‘startup community’ to get to the point where you have enough interesting companies to ‘scale up’.”
Allo stesso tempo, per concretizzare le possibilità di crescita, le
scaleup hanno bisogno di grandi aziende che possano fornire loro
occasioni di crescita e di exit, sotto forma di acquisto/distribuzione
di prodotti e servizi, investimenti e acquisizioni. Sono quei soggetti
che definiamo
scaler e che sono gli
abilitatori
della crescita delle scaleup. Quindi la presenza di grandi aziende
all’interno dell’ecosistema favorisce la crescita delle scaleup (esempio
tipico è la Silicon Valley), anche se le relazioni tra scaleup e scaler
di solito hanno connotato internazionale e quindi possono avvenire
anche al di fuori dell’ecosistema da cui sono fuoriuscite.
Ma quando una startup diventa una scaleup? Dopo aver
validato le ipotesi alla base del proprio business model e quando è
pronta ad avviare un percorso di crescita significativa, possibilmente
esponenziale. Questo passaggio equivale al superamento della fase
seed/early stage che, negli Stati Uniti in genere, è fatta coincidere
con il Series A. Ossia
“crossing the growth chasm”, riadattando l’espressione di Geoffrey Moore’s che, auspicabilmente, dedicherà il suo prossimo libro alle scaleups.
La “lean methodology” ha aiutato tantissimo le startup nella ricerca
– in modo rapido, efficiente (ossia con investimenti limitati) ed
efficace – dei business model che potessero avere una chance di
scalare.
di Alberto Onetti, "La Silicon Valley", Corriere della Sera